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Romanzo Criminale

venerdì 2 gennaio 2009, di Sandra Avincola


Quando, nel 2005, uscì sul grande schermo “Romanzo criminale” di Michele Placido (tratto dall’opera omonima di Giancarlo de Cataldo), apparve chiaro anche ai non cinefili che ci si trovava di fronte a un prodotto di qualità, che per ritmo, “suspence” e spregiudicatezza aveva poco da invidiare ai film americani di genere o ai famosi “polar” francesi.
Il taglio rapido, la capacità di dare allo spettatore un quadro d’ambiente, estremamente attendibile, della criminalità romana degli anni ’70, e al contempo di comporre ritratti psicologici di grande (troppo?) fascino dei componenti la banda, spiegano il successo di un film che fu esportato in ben venti paesi stranieri.

È pur vero che il film di Placido poteva contare su un cast di tutto rispetto, da Pierfrancesco Favino (che diede una caratterizzazione indimenticabile di “Libano”, la vera mente della banda), a Kim Rossi Stuart, inarrivabile per bravura e fascino nel personaggio del bello e dannato “Freddo”, al “Dandy” dell’allora emergente Claudio Santamaria, a Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca e Stefano Accorsi. Già allora ci si pose il problema, di non trascurabile importanza quando si rappresenta il Male nella sua accezione più corposa e tangibile, se fosse giusto mostrare allo spettatore le motivazioni “umane” (se è lecito usare il termine in casi come questo) delle azioni criminose dei personaggi.
Era ben noto a tutti che la fiction rappresentava fatti realmente accaduti, e che quei personaggi erano riferibili a individui in carne e ossa che avevano imperversato per anni nelle trame criminali più sanguinarie (e occulte) della malavita romana. Il film metteva bene in risalto, per esempio, il legame d’inossidabile amicizia che legava fra loro le figure principali, conferendo tratti d’umanizzazione a spietati assassini; ne mostrava gli amori (chi può dimenticare l’auto-contaminazione di AIDS che il Freddo opera su se stesso, pur di uscire dal carcere e tornare così tra le braccia dell’amata?); i rigurgiti (sia pure rari, ma non per questo meno importanti) d’umanità.
Ci si muoveva, tanto per citare un antecedente illustre, nell’ambito de “Il Padrino” e dintorni: anche l’epopea dei mafiosi siculo - americani di Coppola s’era mossa sul doppio binario di rappresentare la spietatezza criminale sul versante pubblico e l’idillio familista su quello privato, con vecchi boss che piangono sui corpi di figli straziati dai mitra di bande rivali, madri che preparano sughi e melanzane alla parmigiana in trepida attesa dei maschi del clan, amori mozzafiato sulle note struggenti del famoso tema musicale (che fu uno dei motivi del successo planetario del primo film della trilogia), le regole del “rispetto” dovuto al Padrino elevate a vero proprio codice d’onore, e non solo nel senso mafioso del termine. Diciamocelo sottovoce: tutti abbiamo esultato quando Michael Corleone faceva fuori, in un colpo solo, il perfido Tony Sollozzo e l’equivoco, corrotto capo della Polizia.

Questa nuova edizione di “Romanzo criminale” di Stefano Sollima, attualmente in onda su Sky Cinema (dodici puntate di cinquanta minuti ciascuna), pone allo spettatore problemi analoghi.
Intanto la serie, prodotta dallo stesso Sky Cinema e da Cattleya in associazione con Rti-Mediaset, promette di fare davvero centro: la ricostruzione ambientale (con una cura maniacale dei dettagli negli abiti, nelle pettinature, nelle auto d’epoca) è presso che perfetta, e il nuovo cast non fa rimpiangere certo quello del film precedente.
Francesco Montanari, con la sua maschera da duro, dà al personaggio del “Libanese” un’intensità che ha ben poco da invidiare a quanto s’era visto sul grande schermo; Vinicio Marchioni riesce a conferire perfetta credibilità al personaggio del Freddo, lavorando soprattutto sui silenzi e sui trasalimenti che affiorano, a tratti, nell’impassibilità di un volto imperscrutabile; Alessandro Roja, che dipinge a meraviglia le superficialità grossolane del Dandy, è ancora più convincente di Santamaria; Alessandra Mastronardi è una Patrizia perfetta, così come “il Terribile” di Marco Giallini.
Il punto di forza di questa nuova edizione di “Romanzo criminale” è in parte dovuta anche alla maggiore lunghezza, ciò che consente al regista di approfondire e sfumare sia le situazioni sia i personaggi senza mai incorrere nel rischio di un’eccessiva semplificazione. Ecco così snodarsi la storia di una banda che, dal vivaio della piccola delinquenza di quartiere, comincia a prendere coscienza della “congiuntura” favorevole al salto di qualità e pone in essere un’organizzazione criminosa sempre più complessa e ramificata, con appoggi e coperture insospettabili, collusioni con il potere politico, la mafia, i “servizi” segreti…
Nel film la rappresentazione della violenza, ovvero del suo uso sistematico e spietato per incutere terrore e affermarsi in modo sempre più irresistibile, raramente indulge all’autocompiacimento, inquadrandosi piuttosto nella necessità di rendere, nei termini più veritieri possibili, il “modus operandi” di una banda che fece tremare Roma e a lungo diede scacco alla polizia. Bellissime le sequenze relative alla detenzione di alcuni personaggi a”Regina Coeli”: la rappresentazione della vita carceraria, della sua cieca violenza e brutalità, ricorda alcuni celebrati film americani di genere, del tipo “Le ali della libertà”.
Il ritmo è serrato, la fotografia efficace, il clima di rievocazione storica perfettamente centrato.
In tutto questo c’è un rischio: non certo quello di innescare meccanismi imitativi (ogni persona per bene possiede di per sé gli anticorpi necessari per non lasciarsi conquistare dal “fascino del male”), ma piuttosto di tracimare su un piano di “romanticizzazione” del crimine, il che appanna i tratti di “documento fedele d’epoca” che sicuramente questo bellissimo film merita di vedersi riconosciuti.
Era proprio necessario mostrarci che “bravo figlio di mamma” era il Libanese? O insistere tanto sui travagli insanabili dell’innamoratissimo Freddo? Evidentemente Sollima non è restato, egli stesso, insensibile al fascino dei suoi eroi “maledetti”, e ha voluto mostrarci che dietro quelle maschere feroci, dietro quelle mani che non tremano quando premono il grilletto dei loro “ferri” o azionano le mitraglie, ci sono comunque degli esseri umani. Esseri che seminano terrore e morte in una città paralizzata dalla loro violenza, ma che poi, a tu per tu con se stessi, si scoprono soli, disperatamente bisognosi di un briciolo d’umanità.
Ed ecco che le loro fastose dimore e le macchine extra lusso, gli abiti griffati e le prostitute d’alto bordo con cui pensavano di riscattare un’infanzia di miseria, si rivelano del tutto insufficienti a riempire i vuoti dell’anima. Perché (e nel volercelo dimostrare sta, forse, la debolezza del film), anche i criminali hanno un’anima.

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