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Gli amici del bar Margherita

mercoledì 8 aprile 2009, di Sandra Avincola


Pupi Avati ha esplorato più volte, nell’ambito di una carriera ormai lunga, i cosiddetti percorsi della memoria; riteniamo, anzi, che il filone memoriale sia tra i più fecondi del regista bolognese e quello che maggiormente gli consente di dar corso alla sua vena “poetica” (è il caso, tanto per citare uno dei suoi lavori più riusciti, di “Una gita scolastica” del 1983). Eccolo ora, dopo la prova drammatica fornita con “Il padre di Giovanna”, tornare a frugare tra le pieghe del passato. Come egli stesso ha chiarito al pubblico televisivo durante una recente trasmissione di “Che tempo che fa”, il possesso e la gestione a fini artistici dei suoi ricordi sono stati resi possibili solo mettendo fra sé e quel mondo lontano una giusta distanza emotiva, cosa che è avvenuta in seguito al suo aver lasciato Bologna ed essersi stabilito a Roma. Precisazione giustissima, il cui senso è del resto entrato a far parte di un comune sentire: solo l’allontanamento (nel tempo come nello spazio) rende possibile una prospettiva estraniante, l’unica a consentirci una visione quanto più possibile oggettiva e non piattamente identificatoria con persone ed eventi. All’infuori di ciò ci sono soltanto pagine di diario, coinvolgenti per chi le ha scritte ma poco suscettibili d’accendere la scintilla di un genuino interesse nell’ ”altro da sé”.
In questa sua ultima fatica, Avati ha assemblato – come lui stesso ha detto nel corso di un’altra intervista – personaggi entrati a far parte del suo immaginario d’adolescente insicuro e un po’ complessato nella Bologna del 1954. Un periodo, quello, in cui i giovani erano connotati da una certa irrilevanza sociale che li faceva vivere sotto l’ombrello, forse frustrante ma quanto mai rassicurante, dell’invisibilità e dell’anonimato: ancora di là da venire i tempi dell’adolescente concupito dal mercato e dai media, i ragazzi d’allora smaniavano per entrare a far parte della cerchia dei “grandi”, in questo caso dei mitici frequentatori del bar Margherita.
Taddeo (Pierpaolo Zizzi), è uno di questi adolescenti desiderosi di crescere. Dalla sua finestra, prospiciente i portici dove si trova il bar, spia avidamente i movimenti e le abitudini di alcuni personaggi: in particolare di Al (Diego Abatantuono) di cui, con un abile stratagemma, riuscirà a diventare “l’autista di notte”, colui cioè che lo scarrozza nelle piovose serate bolognesi verso l’approdo fisso di un locale frequentato da entraîneuses. Al bar Margherita stazionano altri personaggi non meno interessanti: c’è Sarti (Gianni Ippoliti) , perennemente in smoking, che gestisce un negozio di abbigliamento per religiosi; c’è Manuelo (Luigi Lo Cascio), siciliano sessuomane trapiantato al nord, e Gian (Fabio De Luigi), di professione antennista, ma con un unico grande sogno: diventare cantante e partecipare al festival di Sanremo, magari in coppia con l’allora famoso Gino Latilla. Il più fragile del gruppo sembra essere Bep (Neri Marcorè, qui in un altro dei suoi insuperati “camei”), che alla sua non più tenerissima età non ha ancora fatto “conoscenza carnale” con una donna. Il film si snoda senza una vera e propria trama, ma seguendo piuttosto una sua vocazione al ritratto d’epoca e avvalendosi di un duplice sfondo ambientale: quello, appunto, dei bar con la loro “cultura imperante” (come l’ha definita Avati: un misto di sbruffoneria guascone, di solidarietà virile e di atroci beffe, che facevano comunque parte del gioco) e della famiglia di stampo ancora tradizionale, qui in particolare la famiglia di Taddeo, con la mamma (Katia Ricciarelli) e il nonno ottantenne (Gianni Cavina, attore “avatiano” per antonomasia). Tra le figure femminili, caratterizzate con cura al pari dei personaggi maschili, spiccano l’insegnante di pianoforte (Luisa Ranieri), le cui procaci grazie propiziano una morte beata al nonno di Taddeo proprio mentre questi sta festeggiando il suo compleanno, e Marcella (Laura Chiatti), donnina allegra che fa innamorare di sé Bep, scongiurandogli così l’ipotesi di un pessimo matrimonio.
Il film, felice nello spunto bozzettistico, non riesce tuttavia a compiere il passo decisivo verso il capolavoro. Forse la distanza che intercorre tra Avati e i tempi della propria adolescenza è davvero troppo grande; o forse viene a mancare quell’afflato di poesia che esalta il valore di un ricordo e l’alleggerisce dal peso di un eccessivo autobiografismo (come succedeva, ad esempio, in certi film felliniani, dove la fantasia diventava alimento di una visionarietà che dava vita non al ritratto di una qualsiasi Rimini, ma alla Rimini di Fellini). Bologna, così come tante altre città dell’Italia contemporanea, davvero non è più la stessa, se Avati ha dovuto girare gli esterni a Cuneo; o forse, più semplicemente, il regista non si è potuto avvalere delle musiche di Nino Rota, che da sole bastavano a marcare ed esaltare ogni più audace volo della fantasia felliniana.


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