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Teatro di uno scontro fra la Russia e l’Occidente che ha per posta in gioco l’ordine (o il disordine) mondiale, l’Ucraina è anche il teatro di una rappresentazione della guerra dove i ruoli sono predeterminati e fissi, le narrative di parte si impastano con le politiche dell’informazione, i torti e le ragioni si dividono con un taglio netto che prescinde dall’analisi storica delle cause e degli effetti, le identità e il linguaggio si armano secondo la stessa logica del riarmo militare generalizzato.
In questa rappresentazione non c’è spazio per una prospettiva pacifista che significa in primo luogo, come il femminismo insegna, disertare queste logiche di scontro identitario e contrapposizione frontale, disarmare il linguaggio, articolare un’analisi delle differenze e dei conflitti - di classe, di sesso, culturali - che scompongono i due fronti del nuovo “scontro di civiltà” fra democrazie e autocrazie.
In questa prospettiva, stare dalla parte delle vittime non implica solo la solidarietà verso il popolo ucraino aggredito e verso le donne e gli uomini che in Russia dissentono dalla strategia di Putin. Implica anche disegnare la mappa dei territori, delle figure sociali, dei /delle profughi/e che da questa guerra vengono sospinti in una condizione di marginalità e precarietà, e stringere con loro nuove alleanze transnazionali e transculturali.