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Scuola

Contro una scuola sempre più povera

i tagli nella scuola pubblica nelle riflessioni di una professoressa.

domenica 2 novembre 2008, di Sandra Avincola


Ho lavorato nella scuola per lunghi anni, dal 1972 al 2003. Il meglio di me, come persona e come operatrice culturale, è stato speso nella diuturna pratica di insegnante di Italiano e Latino nei Licei. Nulla rimpiango di questo interminabile periodo: per quanto possa essermi spesa in termini di energia morale e umana, per quanto adoperata mi sia per adempiere in maniera adeguata ai miei compiti professionali, per quanto io possa avere dato e trasmesso ai giovani, essi mi hanno dato e trasmesso infinitamente di più. Mi hanno dato il loro entusiasmo, non rimasticato e “con riserva” come spesso lo erogano gli adulti, ma in prima battuta e genuino, come solo sanno fare i ragazzi. Mi hanno dato la loro riconoscenza per ogni cosa bella che abbiamo fatto insieme, per ogni elemento di cultura che potesse ampliare i loro orizzonti e dotarli di un ulteriore “atout” da spendere nella vita; mi hanno dato un attaccamento incondizionato e sincero che spesso ha ricaricato le mie batterie in affanno. Continuo ad essere convinta che quello dell’insegnante sia – possa essere – il lavoro più bello del mondo: ed è per questo che il livello della mia indignazione non smette di crescere di fronte agli attacchi frontali cui il “sistema scuola” deve far fronte nel nostro disgraziatissimo paese.

Già negli ultimi anni della mia professione avvertivo un disagio crescente di fronte al processo di burocratizzazione cui la scuola veniva sottoposta per le bizze del ministro in carica. Noi insegnanti siamo stati letteralmente soverchiati da una melma nera di norme e leggine d’insopportabile pretestuosità, stilate da non meglio identificati “comitati di saggi” che con ogni probabilità avevano dismesso ogni pratica diretta della scuola dai tempi delle elementari. Improvvisamente non contava più, o non contava più come avrebbe dovuto, quel che si faceva in classe, ovvero l’attività didattica nella sua irripetibile unicità, che sempre si modella sulla realtà viva e vera di una classe; ben più importante era stabilire “pregiudizialmente” gli elementi normativi del POF, ossia del Progetto di Offerta Formativa, denominazione pomposa per quella che, sia pure seppellita sotto una valanga di retorica, era una normalissima programmazione didattica.
Ma tant’è: nel momento in cui, alla scuola improntata su quella che dovrebbe essere la sua vocazione naturale, la formazione culturale e umana dei giovani, s’è sostituito il nuovo modello di concezione mercantilistica, con tutti i malintesi sensi di pseudo – efficientismo veteropragmatista, gli allievi non sono stati più utenti (o meglio, parte attiva dell’istituzione), sibbene “clienti”che un’inedita figura di preside – manager doveva sapere attrarre e lusingare. In questa logica si è dato mano allo smantellamento progressivo, perseguito con “scientifica” precisione, della figura dell’insegnante nei suoi connotati di dignità e autorevolezza: tutti gli strumenti di controllo e d’interdizione nei confronti dei comportamenti in qualche misura “devianti” da parte degli allievi, sono stati prima messi in discussione e quindi progressivamente aboliti. Difficile, in questo contesto, poter mantenere la disciplina e scoraggiare il sempre crescente “bullismo” senza l’appoggio dei mezzi adeguati (note di condotta, sospensioni, etc.).
Nessuno, neanche nell’ambito della sinistra (eccezion fatta per i lodevoli interventi, sempre molto puntuali e precisi, di Mario Pirani su “La Repubblica”), ha saputo interpretare e farsi carico del disagio degli insegnanti e dello svuotamento del loro ruolo.

Intanto si doveva dedicare tempo interminabile a discussioni senza senso su “come modulare l’offerta”, escogitando una quantità di corsi-“gadget” per allievi improvvisamente ritenuti incapaci di frequentare con profitto e, talora con diletto, un corso di studi se non affiancato da une serie di proposte che ne vellicassero una supposta esigenza di conoscenze alternative e “approfondimenti” peregrini. Fosse bastato questo, ahimè, ci si sarebbe potuti ritenere ancora fortunati. E invece no: bisognava render conto, diffusamente e per iscritto, di un’altrettanto infinita serie di semplici atti cui s’era adempiuto, fino a quel momento, seguendo la normale prassi della nostra professione.
Come intendeva, l’insegnante tal dei tali, svolgere il suo programma? In base a quale scansione temporale? Avvalendosi di quali strumenti di controllo e verifica? Come se si possa sapere a settembre quello che verrà fatto nella seconda metà di novembre: e se si deve dedicare più tempo a un tema che la classe nel suo complesso non ha ancora debitamente assimilato, che succede, mi portano davanti al plotone d’esecuzione? Ricordo di avere passato più ore al computer per stilare farraginosi prospetti didattici, che per mettere a punto la preparazione delle lezioni del giorno dopo (sia detto per inciso: gli insegnanti “devono” preparare le lezioni e correggere i compiti, naturalmente tutto chez soi e in nero; altrimenti come possono beccarsi gli ambiti titoli di scansafatiche e privilegiati di Stato da indignati Mentori che si portano a casa stipendi da favola, solo perché cazzeggiano impunemente su argomenti di cui non posseggono i più basilari elementi d’informazione?). Di quel periodo orribile ricordo il senso di rabbia e di frustrazione per questa novella pratica del tipo “sotto il vestito niente”: parole, parole, parole e pochissima, per non dire nessuna, sostanza.
Naturalmente continuavo a svolgere il mio lavoro con il ferreo impegno di sempre: i ragazzi non dovevano essere penalizzati per questo aggravio di tempo ed energie che veniva sottratto, a vantaggio dell’aria fritta, ai loro insegnanti. Ma il senso d’ingiustizia e d’impotenza di cui soffrivo non mi ha abbandonato più: ed è allora che ho personalmente maturato la scelta, (e tanti “valorosi colleghi” insieme a me) di lasciare la scuola non appena la legge me lo consentisse. Ho dovuto faticare un po’ a spiegare ai ragazzi il perché d’una decisione comunque sofferta; ma il senso d’aver “dato” (non importa se poco apprezzato da chi oggi guarda e giudica il lavoro in base alla sua immediata monetizzazione) ha, almeno in parte, compensato i sensi di colpa nel lasciare l’agone. Che vengano le nuove generazioni a combattere in prima linea – mi son detta -; per quanto mi riguarda, saluto e ringrazio.

Naturalmente, chi è stato insegnante lo sarà sempre “in pectore”, per tutta la vita. Continuo dunque a interessarmi di tutto quello che riguarda la scuola, e la riforma del ministro Maria Stella Gelmini mi ha messo in uno stato di allarme crescente. È pur vero che per la prima volta, dopo tanti anni, vedo gli studenti scendere in piazza a manifestare non solo per la scuola, ma per il loro futuro, di cui corrono il rischio d’essere scippati.
Già, perché una scuola dequalificata, sempre più povera di mezzi e quindi di strutture adeguate a fronteggiare la sfida dei tempi, non darà nulla a questi ragazzi, men che mai la cultura: e forse si ricomincia a comprendere, sia pure confusamente, che senza cultura non si va molto avanti in una società in cui la competizione è sempre più feroce, dove la globalizzazione che ha azzerato le frontiere del mercato del lavoro (comprendendovi i qualificatissimi, dal punto di vista scientifico e tecnologico, concorrenti della Cina e dell’India) lascia al palo chi s’accontenta di accaparrarsi un titolo qualsiasi in una istituzione dove l’impegno individuale e il sacrificio ormai sono degli “optionals”.
Cari genitori, sì, proprio voi: siete davvero convinti che questa guerra insensata agli insegnanti, in una difesa cieca e incondizionata delle vostre “creature”, faccia veramente il bene dei vostri figli? Davvero pensate che l’unica cosa importante sia il famigerato pezzo di carta, e per ottenerlo pensate che nessun prezzo da pagare sia abbastanza alto, ivi compresi la parzialità un po’ comica (per meglio dire tragica) con cui vi mettete dalla parte dei pargoli e i ricorsi al Tar del Lazio quando qualcuno di questi spiantati nullafacenti che sono i professori (sempre troppo ben pagati, se si considera il basso livello qualitativo delle loro prestazioni, secondo il ministro Brunetta) commette il sopruso di bocciarveli?
Se non altro, la protesta generalizzata contro la riforma Gelmini ha avuto il potere di ricompattare i vari comparti della scuola, compiendo il miracolo di far sentire di nuovo insegnanti, studenti e le loro famiglie come parti della stessa causa. Una mancata attenzione da parte del governo a questa richiesta di democrazia che viene da un settore così ampio dell’opinione pubblica e della società italiana (e, dopo l’approvazione alla Camera per voto di fiducia del decreto, sembra proprio che si abbia l’intenzione di procedere a testa bassa verso il varo della riforma), potrebbe dare inizio a un’inversione di tendenza, e ripoliticizzare il mondo studentesco sia pure su basi del tutto nuove rispetto al passato. Forse i nostri giovani non sono poi del tutto decotti dal numero impressionante di ore vissute come fruitori di mala televisione, forse le loro aspirazioni di vita vanno ben oltre quella di fare i tronisti e le veline

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