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Darren Aronofsky

Il cigno nero

Un’opera marcata dall’intenzione di voler dire qualcosa di rilevante riguardo al mondo del balletto

venerdì 25 febbraio 2011, di Sandra Avincola


Che il mondo della danza classica sia molto lontano dall’algida perfezione che osannate “étoiles” internazionali rappresentano nelle loro esibizioni, è cosa risaputa, e il grande schermo non ha mai mancato di mostrare di che lacrime e sangue esso grondi dietro il backstage (e non solo in senso metaforico: numerose sono le sequenze, anche in questo film, di piedi doloranti, unghie spezzate, scarpette che diventano veri e propri strumenti di tortura). A chi osi spingere lo sguardo su questo mondo si paleserà una realtà fatta di prove sfibranti, spietate rivalità e rinunce di ogni genere, come alcuni celebrati film del passato ci hanno fatto conoscere, da quella chicca per vecchi cinefili che è “Scarpette Rosse” di Powell e Pressburger (1948), a “Due vite, una svolta” di Herbert Ross (1977). Con “Il cigno nero” (Black Swan) di Darren Aronofsky, candidato a cinque Oscar, il genere si arricchisce di un altro importante tassello: perché, per quanto discordi possano essere l’apprezzamento critico e l’indice di gradimento da parte del pubblico, si tratta in ogni caso di un’opera marcata dall’intenzione di voler dire qualcosa di rilevante riguardo al mondo del balletto, e non solo. Anzi, potremmo dire che di carne al fuoco se ne mette fin troppa, dal momento che i temi – cui corrispondono altrettante chiavi di lettura – sono molteplici: dall’Arte come ossessione che si sostituisce, con esiti catastrofici, alla vita, alle conseguenze rovinose di un’educazione sessualmente repressiva, al potere di fascinazione del male che uncina con sé l’altro importante tema dello sdoppiamento schizoide, come Nietzsche ha sottolineato in uno dei suoi più famosi aforismi (“Chi lotta contro mostri, deve fare attenzione a non diventare lui stesso mostro. E se tu guarderai in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”).

Numerosi, quanto spietati, sono i mostri di Nina Sayers (Natalie Portman), giovane ballerina malata di perfezionismo che attende con ansia la sua grande occasione. Questa sembra esserle propiziata dal direttore artistico della compagnia, Thomas Leroy (Vincent Cassel) che le affida il doppio ruolo di Odile/Odette nel balletto forse più rappresentativo dell’idea che il profano si è formato della danza classica, “Il Lago dei Cigni” di Tchaikowskij. La necessità di sdoppiarsi in due figure umanamente e psicologicamente contrapposte è da sempre vero banco di prova per ogni étoile che si rispetti. Da una parte la pura, virginale Odette (trasformata in cigno dalla malvagità del mago Rothbart); dall’altra la malvagia, sensuale Odette (figlia dello stesso mago, che assunte le sembianze di Odile riuscirà ad irretire il principe che dovrebbe spezzare l’incantesimo): due diversi stili di danza, levità angelica e furore demoniaco, devono potersi concentrare in una sola danzatrice. Leroy martella la dolce Nina perché lasci emergere il suo dark side, senza il quale non potrà affrontare al meglio il periglioso ruolo di Odile. Per la ragazza è una lenta discesa agli inferi. Già dedita a pratiche autolesionistiche (su cui la cinepresa indugia con raffinata crudeltà), comincia a specchiarsi nella parte oscura di sé fino a quel momento tenuta a bada da una madre iperprotettiva e desiderosa di rivalersi delle proprie frustrazioni attraverso i successi della figlia. Ribellione violenta, invidia, sessualità sfrenata che si dedica all’esplorazione di ambo le sponde (forte sequenza d’amore lesbico con la rivale Lily, ottimamente interpretata da Mila Kunis) “invadono” una psiche fragile, pochissimo attrezzata per far fronte allo scatenarsi di così formidabili mostri. In un crescendo drammatico di forte impatto emotivo, supportato da un barocchismo delle immagini cui il regista demanda di rappresentare il delirio onirico della protagonista, la vicenda si avvia a una conclusione che non può non essere tragica. In questo senso l’appunto che sentiamo di dover indirizzare ad Aronofsky riguarda, propriamente, il finale: perché non lasciarlo “aperto”, piuttosto che indulgere fino in fondo alla tentazione kitsch del grandguignol a tutti i costi? Sarebbe stato opportuno lasciare che fosse l’indeterminatezza del sogno a sfumare i contorni di una vicenda sospesa tra realtà e ciò che ad essa si può sostituire e che non appare meno reale a chi ne è preda: quella di una progressiva, lucida follia.

Natalie Portman si cala con adeguata verisimiglianza nel difficile ruolo di Nina, anche se le sue fragilità – “dichiarate” e conclamate sin dalle prime sequenze – la inchiodano a un ventaglio relativamente ristretto di espressioni.


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