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La classe

Vincitore della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes

domenica 2 novembre 2008, di Sandra Avincola


La classe di Laurent Cantet è un film dalla fisionomia non strettamente caratterizzata da tratti “francesi”, nel senso che la realtà che esso rappresenta- un anno scolastico di una terza media del ventesimo arrondissement – può adattarsi benissimo a tanti altri paesi dell’occidente europeo. I problemi propri di una società multi-etnica e multi-razziale, rispecchiati in pieno nel microcosmo di una qualunque scuola della banlieue parigina, sono infatti riferibili alla maggior parte degli Stati europei: può variare la percentuale di presenze di una certa etnia rispetto ad un’altra, ma ovunque si potrà parlare di difficoltà d’integrazione, di conflitti psicologici più o meno evidenti per la difficile convivenza (e spesso sovrapposizione) di più identità culturali, talora vissute come inconciliabili.
L’esito di tutto ciò è che ai tradizionali conflitti generazionali, alle dinamiche cioè della sempre problematica interazione fra il mondo giovanile e quello degli adulti, si aggiunge quello proprio del mancato dialogo fra culture; e il fenomeno appare tanto più doloroso, quanto più tracima oltre la tradizionale opposizione fra cultura delle radici (di cui sono portatori molti degli studenti di questa classe, d’origine prevalentemente maghrebina ma francesi di seconda o terza generazione) e i valori propri della cultura occidentale, con i suoi miti del rispetto delle regole e dell’attivismo come veicolo di traguardi da premiare. In effetti la difficoltà del dialogo, inteso come adattamento ed apertura ai valori di cui l’altro da sé è portatore, oppone anche studente a studente, con incidenti spesso drammatici dovuti a scarso rispetto dell’alterità, (esemplato, nel film,dall’intolleranza dei giovani di etnia africana, contestatori duri di ogni valore venga posto dall’insegnante come “francese”): ecco, quindi, che l’allievo cinese, puntuale per preparazione e sempre estremamente educato nel rapportarsi agli altri, non viene accettato e, quindi, sarà isolato rispetto al gruppo.
L’immagine di cinema-verità che scaturisce dalla visione del film è dovuta a una serie di fattori vincenti: prima di tutto, la parte del giovane professore di Lettere è interpretata con estrema veridicità d’accenti da François Bégaudeau, autore del romanzo “Entre les murs” da cui il film stesso è tratto. Bégaudeau, che portava nel libro l’esperienza vissuta sulla sua pelle d’insegnante nella difficile realtà di un istituto della periferia parigina, presta al suo personaggio tutti i tratti dell’umanità (e, diciamolo, della disperazione) con cui deve avere vissuto tale ruolo nella vita. Del pari i giovani attori, selezionati dopo lungo rodaggio, recano con sé tutta la freschezza e spontaneità del loro status naturale, fatto di atteggiamenti di sfida, rapide quanto immotivate accensioni di collera nei confronti di qualsivoglia forma d’autorità, aggressività propria di chi sa – o forse, più semplicemente, presente – che la scuola non cambierà in nulla una condizione esistenziale all’insegna dell’esclusione e dell’emarginazione, e intende perciò stesso sgombrare subito il campo da inutili illusioni. Le diverse personalità di questi adolescenti, i loro gesti, modi di vestire e d’esprimersi, il loro rifiuto d’ogni ipotesi di approccio alla cultura “alta” dei libri e del parlare in modo appropriato, getta sulla storia l’ombra cupa della chiusura ad ogni speranza. Lo spettatore percepisce che questi due mondi – quello degli insegnanti attaccati all’ultimo brandello di decoro piccolo-borghese, ancora convinti, dentro sé, del valore salvifico della cultura e della disciplina, e quello degli allievi che tifano per il Mali nella Coppa d’Africa, e vedono in Materazzi il loro più acerrimo nemico – questi due mondi, dicevamo, non si incontreranno mai. E se ciò viene vissuto dai ragazzi con opaca rassegnazione e senza alcun interesse per il soggetto umano che si trovano di fronte, per gli insegnanti è un vero dramma, che svuota di significato autentico non solo il loro lavoro (lo si voglia o no intendere come “missione”), ma anche e soprattutto la loro vita.

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