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The orphanage

giovedì 20 novembre 2008, di Sandra Avincola

Un film di Juan Antonio Bayona. Con Belen Rueda, Fernando Cayo, Roger Príncep, Mabel Rivera, Montserrat Carulla.


Non basta. Non basta fare ricorso all’armamentario consueto di vecchie ville cadenti, porte che cigolano o sbattono all’improvviso, calpestio di passi invisibili che destano i malcapitati nel cuore della notte, sgabuzzini polverosi che portano a stanze segrete (dove si consumarono chissà quali oscure vicende …): non basta, no, tutto questo per dar vita a un horror “doc”, quali, tanto per citare due titoli tra i più recenti e noti, “Sesto senso” e “The others”.
Certo, bisognerebbe che il meccanismo narrativo fosse impeccabile, senza sbavature e con una sua coerenza di fondo pur nell’intreccio fantastico; bisognerebbe poter contare su un colpo di scena finale in grado di rimescolare le carte e farci intravedere ciò che non avevamo colto per difetto d’attenzione o ingenuità: il fatto è che il genere horror è al cinema uno dei più visitati, ma anche di quelli in cui più facilmente latita il capolavoro.
Questo “The orphanage" di Juan Antonio Bayona, (una coproduzione ispano-messicana, cui ha partecipato Guillermo del Toro) pur avvicinandosi all’opera riuscita, si arresta un istante prima che l’ipotesi arrivi a compimento; forse perché la tensione narrativa, piuttosto che concentrarsi nei momenti “clou”, viene stemperata con mano troppo generosa per l’intero arco del film, risultando alla fine un po’ stucchevole.

Siamo nella Spagna atlantica, flagellata dal vento e dalla pioggia, in vista dell’oceano. Laura (un’intensa e convincente Belén Rueda) e il marito Carlos (un non altrettanto espressivo Fernando Cayo), accompagnati dal figlioletto adottivo Simón, si sono da poco trasferiti in una vecchia villa, già sede dell’orfanotrofio in cui la stessa Laura, prima di essere a sua volta adottata, aveva vissuto gli anni dell’infanzia.
L’intento della donna è di aprire una casa famiglia in cui ospitare bimbi poco fortunati; ma ben presto il piccolo Simón, che tra l’altro è sieropositivo, comincia ad avere comportamenti inesplicabili agli occhi dei genitori. Il bimbo dice di intrattenere rapporti di gioco con altri piccoli all’interno della villa, e di recarsi spesso nella casetta di un non meglio precisato Tomás. Laura e il marito addebitano il tutto, pur tra qualche preoccupazione, a una fantasia infantile trasbordante.
Nel frattempo Laura riceve la visita di un’anziana signora che si presenta come assistente sociale; ma indispettita dal modo di fare insinuante e poco chiaro della donna, che mostra di nutrire eccessive curiosità sul conto del piccolo Simon, la congeda bruscamente.
Quella stessa notte, destatasi al rumore di rumori provenienti dal giardino, la ritrova però in atteggiamento sospetto nel capanno degli attrezzi.
Successivamente verrà a conoscenza che la donna, di nome Benigna, non è affatto un’assistente sociale: in realtà aveva prestato servizio come inserviente presso l’orfanotrofio proprio negli anni della sua infanzia, dove aveva tenuto nascosto, in un ambiente appartato per proteggerlo da curiosità malevole, un figlio deforme poi perito in circostanze tragiche. Fra rumori notturni, risvegli in piena notte del piccolo Simón e strane cacce al tesoro nelle quali il bimbo coinvolge anche la madre, arriva il giorno dell’inaugurazione della nuova struttura di accoglienza.
Gli ospiti, molti dei quali indossano una maschera – cotillon, stanno festeggiando in giardino, quando Simón scompare improvvisamente. A nulla valgono le affannose ricerche, sempre più disperate, della madre, che si reca anche in una grotta prospiciente la spiaggia dove a volte aveva portato il bimbo a giocare.
La polizia pensa a un rapimento, magari ad opera della sedicente assistente sociale, finché – dopo nove mesi di ricerche infruttuose – le speranze di ritrovare il bambino sono ridotte al lumicino. Laura pensa che Simón possa essersi allontanato perché venuto a conoscenza – lui sosteneva ad opera dei suoi amici “invisibili” – della sua condizione di bimbo adottato e gravemente malato, e dentro sé non demorde, arrivando persino ad avvalersi dell’opera di una nota medium per far luce sulla vicenda.
La sensitiva (una straordinaria Geraldine Chaplin), sostenuta da un vero e proprio “team” altamente tecnologico, avverte nella villa la presenza incombente di entità rimaste “uncinate” dai quei luoghi, ed arriva addirittura a vedere dei bimbi negli spasimi della più orrenda agonia…

Sarà bene fermarci qui, perché a partire da questo punto gli eventi s’accavallano sempre più per arrivare allo scioglimento finale, di cui ovviamente non riveliamo nulla.
Il punto di forza dell’opera è nella buona qualità degli interpreti e nella suggestiva ambientazione; tutto questo però non basta, come abbiamo già detto, per produrre il capolavoro, anche se il film ha fatto incetta di premi in patria ed è stato molto apprezzato dalla critica statunitense.

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