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Fenomenologia di Harry Potter: parte terza

lunedì 21 settembre 2009, di Sandra Avincola


Una delle figure più potenti evocate dalla penna della Rowling è senz’altro il personaggio che di questo volume è il filo conduttore, l’anima occulta (e nera!): Dolores Umbridge, Alta Inquisitrice cui il Ministero della Magia ha dato delega di “riportare alla normalità” la scuola di Hogwarts. Sul suo direttore, Albus Dumbledore, si sono infatti addensati i sospetti del ministero di volersi creare una sorta di potere personale e di aver creato, all’uopo, un corpo speciale di fedelissimi che stanno apprestando una super-arma segreta. La capacità dell’autrice di conferire una sgradevolezza quasi parossistica al personaggio della Umbridge è davvero notevole: invadente quanto ipocrita, la nativa malvagità mascherata dietro una ripugnante bonomia, incline al sadismo, totalmente irrispettosa dei diritti e della dignità dei discenti, la Umbridge è la perfetta ipostasi di ogni incubo scolastico avente al suo centro la figura di un cattivo maestro, di un professore crudele e inumano. Ad Harry, che da subito si mette in contrapposizione con lei e che non si perita di contrastarla con atteggiamenti di sfida palese, l’inquisitrice riserva punizioni d’inaudita ferocia: gl’incide a sangue nella carne, durante sedute interminabili, la scritta “I’m a liar”; sottopone gli insegnanti all’umiliazione di snervanti ispezioni durante le loro ore di lezione, scribacchiando ostentatamente su una lavagnetta i suoi appunti critici; provoca la momentanea battuta in ritirata dello stesso potentissimo Albus Dumbledore, intervenuto a difesa di Harry; licenzia in tronco, sotto gli occhi allibiti dei suoi studenti, la professoressa Trelawney, accusandola di scarsa competenza nella sua disciplina d’insegnamento. Tanto dispiego di cattiveria da parte del personaggio è supportato da una serie di “tic” che lo rendono tanto odioso quanto indimenticabile: l’intercalare che precede i suoi interventi verbali (hem hem), la girlish voice - la vocina mielata da fanciulla - di cui si avvale per mascherare d’innocenza le sue perfide battute; gli occhi globosi e sporgenti simili a quelli di un rospo. Date queste premesse, è ovvio che i momenti di gloria del romanzo coincidano con gli smacchi subiti dalla Umbridge (spassosissima la beffa ai suoi danni inscenata dai gemelli Weasley) e, soprattutto, con la sua punizione: trascinata con un pretesto da Harry e da Hermione nella Foresta Proibita, verrà abbandonata alla furia dei centauri che ella ha improvvidamente offeso nell’onore, per riemergervi in stato di totale confusione mentale (Rowling non lo dice: ma non abest suspicio che il tipo di abuso inflittole sia di tipo sessuale). Perfino il più ostile dei professori di Hogwarts nei confronti di Harry, Severus Snape, appare al confronto un innocuo buontempone: ché anzi, sempre nello stesso volume, si ha una conferma di quanto spiccato sia il senso di giustizia del protagonista proprio grazie alla ridefinizione complessiva che egli opera della figura del suo inviso insegnante. Il fatto è che Harry, immergendo lo sguardo nel Pensieve (sorta di recipiente dove i maghi depositano, dopo averli estratti dalla loro mente, memorie di esperienze passate), ha preso visione del peggiore ricordo di Snape: quello di una pubblica umiliazione subita da adolescente, per mano di alcuni compagni di scuola, capeggiati niente meno che da James Potter, il padre di Harry. Da sempre convinto della superiorità morale dei genitori che non ha mai potuto conoscere, Harry avvampa di vergogna nel vedere con quanto sadismo il padre si fosse accanito sull’incolpevole compagno di studi, e da questo momento, pur continuando Snape a tiranneggiarlo, Harry guarderà a lui con più pensosa umanità.
Questa wizarding community costeggia, senza quasi mai intersecarlo, il mondo dei cosiddetti “muggles” (o babbani, nella versione italiana). Al riguardo le regole vigenti fra maghi e streghe sono ferree, e chi le viola può essere sottoposto a sanzioni anche gravi. Ovviamente il “dark Lord”, quel Voldemort che incombe come un genio malefico su tutta la storia, non si perita di scagliarsi con furia omicida “anche” sui babbani, certo di avere così un elemento di ulteriore ricatto a danno dei maghi votati alla causa del bene. È interessante vedere, nel capitolo iniziale del quinto volume della saga (Harry Potter and the Half-Blood Prince) come la Rowling lasci intendere che esiste da sempre un legame segreto tra i due mondi, limitato nondimeno alla reciproca conoscenza fra il Ministro della Magia e il Primo Ministro d’Inghilterra. Il lettore deve poter supporre che tale ipotesi, pur remota a altamente improbabile, non è in ogni caso impossibile: e all’uopo l’autrice ci invita a guardare con maggiore attenzione al mondo fenomenico in cui, al di delle più innocue apparenze, può occhieggiare improvvisa la dimensione dell’oltre - umano. Ecco dunque che, se si entra in certa cabina telefonica di un’anonima strada di Londra e si compone il 62442, si sentirà al ricevitore una fredda voce femminile che dà istruzioni su come accedere al Ministero della Magia … Che dire del St Mungo’s Hospital? Abilitato alla cura di morsi da creature mostruose, accidentale assunzione di pozioni magiche, ferite dovute a esplosione di crogiuoli e danni indotti da incantesimi, vi si arriva attraverso la vetrina di un dimesso, antiquato grande magazzino, la cui facciata in mattoni rossi ha l’aria di aver conosciuto tempi migliori. Naturalmente, una volta che sarà stato consentito l’accesso, si scoprirà che l’interno di questi edifici è sontuoso e splendidamente adorno, oppure che tutto vi brilla all’insegna dell’efficienza: ma nulla dovrà, all’esterno, attirare più di tanto l’attenzione dei Muggles, alla stessa stregua del famoso binario “nove e tre quarti”.
Il fascino di questa supposta dimensione, parallela a quella della più corriva normalità, è potenzialmente inesauribile, e si comprende come lettori di diverse fasce d’età vi abbiano attinto – e continuino ad attingervi - la loro dose quotidiana d’immaginario. Variamente modulata e come in grado di rigenerarsi da se stessa, la vena creativa della Rowling ci stupisce con una scintillante fantasmagoria di trovate che non lascia mai delusi: streghe e maghi, elfi e goblins, esseri mostruosi e scope volanti, fotografie animate e specchi che riflettono i desideri, “Dementors” (Dissennatori, nella versione italiana) che succhiano felicità e ricordi dall’anima delle loro vittime, “Portkeys”, ossia oggetti che basta toccare per essere teletrasportati anche a distanze incommensurabilmente lontane … Tutto ciò compone un universo perfettamente coerente rispetto alle premesse narrative poste dall’autrice stessa. Si avverte nella Rowling lo studio amoroso, la frequentazione assidua degli autori che hanno maggiormente lasciato liberi i freni della loro fantasia: e se Dante deve essere stato tenuto ben presente (soprattutto per la suggestione esercitata dall’iconografia infernale sugli aspetti tenebrosi della saga), ancora più evidenti sono le tracce del capolavoro ariostesco, e non solo per la presenza nell’opera degli ippogrifi. Particolarmente rilevante ci è parsa la citazione del viaggio di Astolfo sulla luna, allorché Harry, insieme a un gruppo ristretto dei suoi migliori amici di Hogwarts, fa un’irruzione notturna nel Ministero della Magia per correre in difesa di Sirius Black. Egli trova allineate su lunghi e alti scaffali numerose sfere di cristallo contrassegnate da nomi e racchiudenti, ciascuna, una profezia relativa al destino di determinati individui: e, come già Astolfo aveva prelevato l’ampolla contenente il senno di Orlando, Harry prende la sfera che reca il suo nome per impedire a Lord Voldemort di leggervi prima di lui il futuro che l’aspetta.
Se a tutto questo si aggiunge il fatto che l’opera, pur caratterizzata da eventi violenti e catastrofici, non disdegna di fare occasionale ricorso alla vena di humour propria della più schietta tradizione anglosassone, si comprenderà ancora meglio il perché del suo successo. Grazie a questi indubitabili punti di forza, sentiamo di poter perdonare alla Rowling molte cose, a cominciare da quell’improbabile Latino (anch’esso di fantasia, come tutto il resto) che si affaccia sia nella nomenclatura di erbe ed animali, sia – soprattutto - negli enchanting charms and spells pronunciati a ogni piè sospinto da maghi e streghe nel corso dell’opera. Expelliarmus! Vingardio Leviosa! Riddikkulus! Sono soltanto alcune delle formule più esilaranti nelle quali ci si imbatte nel bel mezzo di furibondi duelli magici, le bacchette brandite come armi temibili armi contro l’avversario. Ma aspettarsi una Rowling latinista (o semplicemente pensosa di verificare la giustezza di una lingua, sia pure morta, diversa dall’Inglese) sarebbe forse stato pretendere troppo.
(fine)

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