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Memorie illustri a Testaccio

venerdì 9 novembre 2007, di Carla Costanzi


« Uno straccetto rosso, come quello/ arrotolato al collo ai partigiani/ e, presso l’urna, sul terreno cereo,/ diversamente rossi, due gerani./ Lì tu stai, bandito e con dura eleganza/ non cattolica, elencato tra estranei/ morti: Le ceneri di Gramsci... »

Pier Paolo Pasolini davanti alla tomba di Gramsci al Cimitero acattolico
Gramsci, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante: con la loro illustre presenza celebriamo in questo nostro incontro periodico la memoria.
Legati al nostro rione sia nel tempo di vita che oltre, legati tra loro a più fili: per matrice relazionale diretta, come la Morante con Pasolini, per affinità socioculturali come quest’ultimo con Gramsci al quale dedica un suo poemetto: Le ceneri di Gramsci. Pier Paolo Pasolini
Oggi, nel rischio sempre più pressante di un arrogante revisionismo storico, la voce di Pasolini, profeta laico di logiche e fatti ai quali oggi chiunque riconosce veridicità, risuona più potente nel ricordo di quanto lo sia stata nel presagio.
Ritorno ad alcuni suoi discorsi come quello epocale sulla differenza tra progresso e sviluppo: “Vorrei fare una distinzione tra sviluppo e progresso: tra le due parole c’è una differenza enorme. Sono due cose non soltanto diverse, ma addirittura opposte e inconciliabili. Infatti questo storico sviluppo è voluto dalla destra economica…”
Progresso è per lui ciò che vorrebbero i lavoratori e gli intellettuali di sinistra, cioè un mondo a misura d’uomo, che rispetti tutti i valori culturali che rendono la vita basata non solo sull’utile ma anche sul bello; Sviluppo è invece l’industrializzazione totale del mondo, voluta dai cinici produttori di beni superflui e dagli inconsapevoli, ma non meno trionfanti, consumatori.
Continua: “Il consumismo è una forma assolutamente nuova, rivoluzionaria, di capitalismo perché ha degli elementi nuovi dentro di se che lo rivoluzionano, cioè la produzione di beni superflui in scala enorme.
La scoperta, quindi, della funzione edonistica che questo mondo non voglia più avere dei poveri, ma delle classi che vogliano consumare. Vuole avere dei bravi consumatori, non dei bravi cittadini. Questo ha trasformato antropologicamente gli italiani. Perché gli italiani più degli altri? Perché l’Italia non ha mai avuto né un’ unificazione monarchica, né un’unificazione luterana – riformistica, che è quella che ha preparato la civiltà industriale, né una rivoluzione borghese, né la prima rivoluzione industriale.Non ha avuto nessuna di queste rivoluzioni omologatrici. Per la prima volta, quindi, l’Italia è unificata nel consumismo e la cosa è abbastanza terrorizzante e abbastanza definitiva.”
Il suo pensiero lo ha condotto nel nostro rione, in quel posto particolarmente evocativo perchè è uno spazio mentale prima che fisico, in cui sembra transiti la storia e non solo perchè accoglie i resti di personaggi noti e di tanti che hanno lasciato eredità pesanti per la nostra civiltà ma anche perchè sapere che sono li, ognuno sotto la sua pietra, rende più vera la storia, più vicina a chi li visita.
E questo lo aveva detto prima e sicuramente meglio di me Foscolo, grande cantore del valore della memoria; solo che starci dentro ti fa capire fino in fondo quello che poeti, artisti e filosofi hanno ripetuto e che noi abbiamo spesso mandato supinamente a memoria per esigenze scolastiche più che per sentita partecipazione.
A Roma i pochi che lo conoscono lo chiamano il Cimitero degli Inglesi; sta dietro la Piramide Cestia, a due passi dalla metro. E’ un luogo particolare, di silenzio in mezzo al traffico metropolitano, e dentro a quel cimitero ci sono sepolti il fisico Pontecorvo, uno dei ragazzi di Via Panisperna, il Principe Yussupov, uno degli assassini di Rasputin, i poeti inglesi Shelley e Keats, lo scrittore Carlo Emilio Gadda, il poeta Dario Bellezza, e finalmente Gramsci, al quale Pasolini si sente legato più come “non padre, ma umile fratello…”
E il dialogo ideale – nel poemetto - è scandito dal battere delle incudini nelle botteghe e dalle saracinesche che nel quartiere si abbassano al finire della giornata lavorativa mentre gli operai rientrano a casa.

“A via Zabaglia, a via Franklin… manca poco alla cena…
i rari autobus del quartiere brillano con grappoli d’operai agli sportelli… e i militari vanno, senza fretta, verso il monte che cela fra mucchi secchi d’immondizia, rintanate zoccolette che aspettano irose sopra la sporcizia afrodisiaca…
e non lontano i ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza primaverile”
Elsa Morante con Moravia a Capri

Se ci spostiamo al numero 41 di via Amerigo Vespucci incontriamo non solo un’altra storia illustre, ma catturiamo il flusso potente della Storia, nei valori che Elsa Morante ha trasferito nel suo grande romanzo, forse la sua opera più ambiziosa.
Nasce a Roma il 18 agosto del 1912: figlia di Irma Poggibonsi, maestra elementare ebrea, e di Francesco Lo Monaco. Cresce tuttavia in casa del padre anagrafico Augusto Morante, istitutore in un riformatorio per minorenni. Alla fine degli studi liceali, lascia la famiglia e va a vivere per conto proprio; ma la mancanza di mezzi economici la costringe ad abbandonare la facoltà di Lettere. Negli anni Trenta vive infatti da sola, mantenendosi con la redazione di tesi di laurea, dando lezioni private di italiano e latino, nel 1936 conosce Alberto Moravia che sposerà nel 1941.
Quando scrive La Storia è già una scrittrice di successo, ma non pubblica romanzi da anni.
La Storia racconta le vicende di Ida, una maestrina calabrese che vive nel nostro quartiere e che mette al mondo un figlio, Useppe, nato da una violenza subìta da un soldato tedesco. Insieme col figlio, malato e indifeso verso il mondo, attraverserà sette anni terribili, quelli della fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’immediato dopo-guerra. Ida e Useppe sono due vittime della storia, come gran parte dei personaggi del romanzo che racconta della piccolissima borghesia e del proletariato della Roma di quegli anni.
Alla sua uscita il libro raccolse consensi entusiastici, ma fu anche accusato di essere reazionario e consolatorio. Quello della Morante era in effetti un monito anarchico, un urlo di dolore contro la storia, che non poteva essere gradito a una cultura pienamente storicista come quella italiana.
La scelta del titolo “La Storia” si riferisce proprio al significato di narrazione della storia dell’umanità, del mondo, a ciò che noi chiamiamo Storia, a quella racontata da Erodoto e da Machiavelli.
Non quindi una storia,personale e limitata nel suo significato, ma La Storia, quella che trascende il romanzo immaginario, perché Elsa Morante pensa che la storia sia stata essenzialmente un eccidio di innocenti e che abbia colpito soprattutto coloro che non sanno la storia, ma la subiscono.
E’ la storia di oggi, che, a distanza di poco più di trent’anni da quando è stata scritta, colpisce gli innocenti, le persone che non sanno la guerra, che non sanno la storia.
Elsa Morante, pur essendo di origine siciliana, riesce a sentirsi a tutti gli effetti romana, vive in un rione tutto romano e parla quindi di ciò che sa, che conosce proprio perché nel viverci anche lei come noi ne ha assorbito l’humus vitale che continua ancora a scorrere nelle strade di questo fazzoletto di città che sa di storia vissuta e narrata.
Dichiarò più volte che “non aveva voluto scrivere un romanzo, ma compiere un’azione politica…”: è un grido, un grido esasperato, l’urlo dell’artista, con una capacità di ascolto e di risonanza maggiore di altri urli.
Una delle grandi novità del romanzo della Morante è proprio di avere cacciato vigorosamente fuori dell’immaginazione romanzesca la storia che appartiene ai personaggi storici che la gestiscono. Questa parte è confinata dalla Morante in corpo minore. Ciò che può essere ricondotto all’azione di protagonisti della storia, quali Hitler o Mussolini, non viene considerato in alcun modo raccontabile. Ciò che è raccontabile è, invece, quello che accade a noi, che siamo vittime di ciò che ci viene fatto da altri.
Lei racconta soltanto di coloro che subiscono la storia, non quelli che la fanno; è una scelta, questa, di grande violenza narrativa ed è una delle ragioni per cui questo romanzo è stato molto avversato. Inoltre, c’è da dire che una scelta di questo genere, così imperiosa e ferma, senza mai venir meno a questo presupposto, è molto femminile.
Uno scrittore di sesso maschile non avrebbe avuto il coraggio di Elsa di tagliare la storia in due con un colpo secco. Qui, coloro che non contano nulla, come la maestrina e il figlio, il portatore di carretta, hanno diritto a essere protagonisti di un romanzo, mentre quelli che contano qualcosa, producono sangue e lacrime e, per questo, vengono espulsi dal romanzo, virtualmente dalla Storia.

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