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Moby Dick al Vaticano

Habemus Papam di Nanni Moretti

mercoledì 20 aprile 2011, di Sandra Avincola


“Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca la maschera! Come può il prigioniero arrivar fuori se non si caccia attraverso il muro?” (da “Moby Dick” di Hermann Melville, trad. Cesare Pavese).
Siamo convinti che Nanni Moretti, nel dare il nome di “Melville” al suo Papa malato di depressione, deve aver tenuto ben presente il capitano Achab di “Moby Dick” e le sue antiche ossessioni di perseguire il male che è in lui andando alla caccia del male “fuori di lui”. La maschera che il neoeletto pontefice cerca di colpire è quella che – nel momento stesso in cui gli è stata posta sul volto – ha cominciato a farlo urlare di terrore: il terrore di scoprirsi improvvisamente inadeguato a tanto compito (chi non lo sarebbe?), ma, in termini più sotterranei ed egoistici, anche di non poter più essere se stesso, di non potersi più mescolare all’umanità comune nel più perfetto e consolatorio degli anonimati. Al primo inginocchiarsi dei porporati di fronte alla sua nuova, terrificante maestà, il panico gli stringe la gola: egli è “il prigioniero” di cui parla l’autore di Moby Dick, e già null’altro vede se non un desiderio folle di “cacciarsi attraverso il muro” per evadere dalla prigione delle spaventose responsabilità che gli gravano improvvisamente sulle spalle.
Questo di Moretti è, nel senso più nobile del termine, un film-apologo: un apologo sui limiti dell’uomo e sulla grandezza – anche questa tutta umana – di saperli riconoscere; una lezione di umiltà impartita a chi, - pensiamo ai tanti “parvenus” del potere per meriti guadagnati tra le lenzuola o acquisiti per compravendita al ribasso di se stessi - si catapulta senza averne i requisiti minimi ai vertici della vita politico-istituzionale del proprio paese (come non ricordare il dantesco “I’ mi sobbarco”?). In tal senso, anche se sembra essersene allontanato, Moretti continua qui il suo discorso sulle aberrazioni del potere, e lo fa attraverso la figura di un papa che se ne ritrae nel momento stesso in cui ne è insignito. Sbaglia chi ha ritenuto di intravedere nelle situazioni configurate nel film uno schiaffo alla Chiesa, o peggio una messa in burla delle sue istituzioni. In realtà Moretti non ha inteso colpire la Chiesa, anzi: mentre ne osserva con occhio affascinato i rituali e le scenografie, vuole coglierne l’umanità al di là della cortina di cui si cinge perché non si vedano, all’esterno, limiti e debolezze delle persone chiamate a rappresentarla. Ed ecco gli alti prelati scrutati con occhio compassionevole nelle loro non sempre liete solitudini, nelle lunghe veglie in cui un mazzo di carte o un “puzzle” sono innocenti diversivi opposti al silenzio di vite all’insegna della rinuncia; ecco la loro gioia infantile allorché il Moretti- psicanalista, “prigioniero” come loro nelle sale vaticane fino a che il portavoce del Papa non scioglierà la riserva, organizza il torneo di pallavolo tra porporati dei cinque continenti … Forse qualcuno arriccerà il naso di fronte alla figuratività surreale di queste sequenze, ma – ripetiamo – quel che l’attore-regista ha inteso rappresentare è “l’umano, troppo umano” sotteso finanche all’essere che più dovrebbe trascendere la propria umanità per annullarsi totalmente nell’alto compito demandatogli, il Pontefice di Santa Romana Chiesa.
Il periplo intorno a se stesso che un meraviglioso Michel Piccoli compie sui fondali di una Roma insolitamente “respingente” e assai poco oleografica, è una ricerca di quell’uomo che egli teme di non poter essere mai più: una sortita ai grandi magazzini, un lungo giro in autobus, la ciambella divorata golosamente dentro una “cornetteria” notturna, un palco in teatro per assistere a una rappresentazione cecoviana …. Finché la realtà - per lui spaventosa - della sua nuova condizione torna per metterlo all’angolo, per sancire, con una mossa ancora più teatrale della “pièce” rappresentata sul palcoscenico, la fine della sua vita da uomo e l’inizio di quella come Papa. Il volto dell’attore, che fornisce qui una delle sue prove più alte, rende mirabilmente (nelle impennate improvvise della voce, nella desolata gestualità, perfino nei tic facciali quasi impercettibili) il dramma di ogni essere umano chiamato a rappresentare una parte non sua. Quella parte che, in modo risibile e quasi impudico, viene interpretata da chi ritiene di possedere la chiave di volta per penetrare, scientificamente e infallibilmente, la complessità umana nei suoi tanti misteri e contraddizioni. In tal senso le figure dei due psicanalisti sono da manuale: lui, nel suo ossessivo ripetersi di essere “il più bravo” (l’unica certezza di una vita che gli si è sgretolata progressivamente sotto gli occhi), lei, nella sua formula preconfezionata del “deficit d’accudimento” cui fa risalire tutte le nevrosi dei suoi sventurati pazienti. Un film grande, grandissimo, nel suo mixer di crudeltà e tenerezza, di pietà e ferocia, cui gli attori – tutti in stato di grazia – prestano i connotati della più perfetta credibilità.

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