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Sbagliando, non si impara

La politica estera americana dall’Iraq all’Iran

venerdì 26 ottobre 2007, di Marina Bernabei


Il 20 marzo 2003 iniziava l’avventura dell’amministrazione Bush in Iraq. L’impresa non era nuova né all’America, né alla famiglia Bush. Tramandata da padre in figlio, la guerra all’Iraq tornava alla ribalta, si ammantava di significati nuovi e si alimentava di un nuovo clima di paura generalizzato, sorto dopo l’11 settembre.
Nella sua seconda edizione, essa si è perfezionata nei mezzi e negli obiettivi. Non è stato più necessario un mandato dell’Onu per inviare le truppe in un altro stato sovrano, non è occorso un motivo formalmente valido e realmente comprovato per dichiarare guerra, non ci si è più limitati a operazioni militari superficiali e circoscritte territorialmente. Questa volta si è fatto sul serio. Questa volta si è abbandonata la politica del contenimento e delle sanzioni economiche e si è optato per una scelta più drastica: il crollo del regime e l’uccisione del dittatore. I dubbi di Bush senior su un eventuale vuoto di potere e una situazione incontrollabile di anarchia sono stati superati dall’esigenza profonda di Bush junior di esportare la democrazia in queste terre desolate.
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A quattro anni di distanza le conseguenze della politica estera americana nei confronti dell’Iraq sono di fronte agli occhi di tutti. L’Iraq Body Count, una banca dati pubblica, indipendente e completa, basata sui resoconti delle agenzie e delle testate giornalistiche, fissa tra i 74.431 e i 81.119 il numero dei civili morti in Iraq in seguito ad azioni militari dirette degli USA e delle forze alleate dal 2003 in poi. E il numero dei morti sia tra i soldati americani che tra gli iracheni è destinato ad aumentare.
Negli stessi ambienti statunitensi in cui si era preconizzata la guerra contro l’Iraq, viene veicolata ora l’idea della grave minaccia che l’Iran rappresenta per il mondo intero. Gli ideologi neoconservatori rispolverano gli argomenti utilizzati a sostegno dell’attacco all’Iraq e i vertici militari studiano piani di attacco per un nuova guerra lampo. Tre settimane di bombardamenti, attacco congiunto dal cielo e da terra dovrebbe bastare a rendere innocuo questo pericoloso nemico.
Armi di distruzione di massa non ce ne sono, ma il programma di arricchimento dell’uranio portato avanti dall’Iran sembra di nuovo giustificare l’ipotesi di un intervento militare americano. Non manca neanche il cattivo. Le esternazioni oltranziste di Ahmadinejad e le violazioni ripetute dei diritti umani trasformerebbero la guerra in una nuova crociata di liberazione dal male.
Per ora l’eventualità di un’offensiva è piuttosto remota, ma la posta in gioco è alta. Ad impensierire gli Stati Uniti non è tanto il programma nucleare iraniano, ma il ruolo geopolitico dell’Iran come potenza regionale nel vicino Medio-Oriente e come ago della bilancia nella lotta tra sunniti e sciiti per il controllo dell’area.
L’unico intervento che al momento sembra il più probabile è quello di stabilire nuove sanzioni contro l’Iran. Le due precedenti risoluzioni delle Nazioni Unite prevedevano il divieto per gli Stati membri di fornire al Paese tecnologie legate al nucleare e di intrattenere rapporti con le istituzioni finanziarie collegate al progetto di arricchimento dell’uranio. Le ipotesi ora ventilate per una nuova azione punitiva contro l’Iran comprendono il congelamento dei conti bancari degli iraniani più ricchi, la non concessione di crediti da parte di altri Stati, l’impedimento alla compagnia aerea nazionale di volare.
Anche questa possibilità al momento è però sfumata. Dopo essere stata al centro del dibattito tra le grandi potenze, prima in occasione del Consiglio di Sicurezza e poi dell’Assemblea generale dell’Onu, si è deciso per il no, visto anche il parere espresso dal direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Mohammed El Baradei si è pronunciato, infatti, per un proseguimento del dialogo con l’Iran, ritenendo che vi siano ancora margini di trattativa prima del 2009 quando è ipotizzato che si possa raggiungere l’obiettivo dell’arricchimento dell’uranio.

Lo scenario rimane comunque preoccupante, perché il solo fatto che l’evenienza di una nuova guerra sia contemplata mostra il perdurare nell’amministrazione americana di una concezione di soluzione dei conflitti tra gli Stati improntata al ricorso all’uso della forza. L’Europa, da parte sua, si mostra di nuovo divisa. La Francia di Sarkozy afferma con forza la necessità di nuove sanzioni economiche contro l’Iran e arriva addirittura a non escludere l’eventualità di una guerra, come ha dichiarato lo stesso ministro degli Esteri francese Kouchner. La Germania si allinea alla strategia dell’inasprimento delle sanzioni, ma con cautela a causa delle difficoltà che la Merkel potrebbe incontrare sul fronte interno per l’opposizione dei socialdemocratici. La Gran Bretagna è attendista, dal momento che Gordon non vorrebbe ripetere l’errore del predecessore Tony Blair, la cui testa è caduta sotto i fuochi dell’Iraq. L’Italia e la Spagna scelgono la via del dialogo e della pressione diplomatica.

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