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Ernesto Biagiotti, stuccatore

lunedì 22 ottobre 2007, di Giuliano Garavini

Nato in via Luca della Robbia ci ha detto ad un certo punto: “A Testaccio so’ tutti stuccatori o macellari". Ovviamente esagerava e parlava del passato. Ma noi partiamo con il suo racconto.


Ernesto ha cominciato con lavoretti vari: ragazzino del barbiere, aiutava ad impagliare sedie, portava l’acqua acetosa nelle case del quartiere (l’acqua potabile c’era, ma quella “acetosa” era un vezzo diffuso), dava una mano in una cereria a Portuense.
Con il lavoro di tutto un giorno portava a casa un chilo di pane. Questa rivelazione è bastata a far vacillare le convinzioni fasciste del suo maestro di scuola.
 
A quattordici anni arriva il libretto del lavoro e quindi l’impiego come manovale in un cantiere. Era, e resta, il primo gradino della carriera nel settore edile. Si porta calce e mattoni, si fa quel che c’è da fare. Arriva anche la prima busta paga. E si continua ad impastare.
 
Nel 1952 il Governo decide di ricostruire l’abbazia di Montecassino, rasa al suolo durante la guerra. C’è tutto da rifare. Si presenta la grande occasione per un ragazzo che ha voglia di fare e occhi curiosi per imparare.
Ernesto parte per Cassino. Dieci ore al giorno di lavoro, in tutto per 21 mesi. Sono i mesi in cui un semplice muratore diventa stuccatore: “è stato un poco come andare all’università”. Lì si faceva di tutto: statue, stucchi, cornici, lavori in opera e fuori (in opera sono quei lavori che si fanno direttamente sulle opere che vanno decorare, fuori opera sono quelli che si fanno sul bancone poi vengono applicati dove è richiesto).
Al ritorno dal monte si mangiava, si organizzavano festicciole nelle case perché in giro c’era poca gente. Non mancava il tempo per sbagliare il rimorchio con la fidanzatina di un carabiniere. Alla mia domanda su come se la intendevano con il dialetto dei locali, traspare quel vago senso di superiorità romana: “stando con noi si esprimevano un po’ meglio”.
 
Dopo quei 21 mesi Ernesto è uno stuccatore. Uno dei gradi più alti in cantiere. Lo stuccatore fa le bugne, le cornici, gli stucchi romani, le modanature, le volte: in pratica tutto ciò che è decorativo.
Lo stuccatore dona vita alle geometrie monotone, nasconde elementi strutturali e gli conferisce grazia, spesso con l’aiuto del modine e del gesso, strumento e materiali tipici del suo mestiere.
 
Verso la fine degli anni ’50 è chiamato a lavorare nuovamente alle navate della chiesa dell’abbazia di Montecassino: “io ci andiedi”. Si completa qui la formazione dello stuccatore che garantisce anche un solido stipendio: “più o meno avevo combinato per 6mila o 7mila lire al mese”. Essendo scapolo viveva a casa della madre, che "da soli ci stavano più che altro gli orfani o quelli strani". Poi Ernesto è uno che non fa domande.
 
A un certo punto uno dei “formatori” dell’abbazia (in cantiere un formatore non è uno che insegna, ma uno che crea le forme per statue o altro) si mette in proprio e gli offre una solida collaborazione a Roma: “ci andiedi”. Ho chiesto se qualche volta si è trovato a mal partito con un impresario. Mi ha risposto di no, che non ce n’era motivo perché lui tanto chiedeva e tanto gli davano. Mi ha anche detto però che meno di un anno fa aveva combinato per 150 euro al giorno, il direttore dei lavori l’ha fatto incazzare, e lui se n’è andato. Vantaggi e svantaggi di lavorare in nero.
 
“Ho sposato nel 1962”. A un certo punto si creano tensioni nel gruppo di cui era a capo e comincia un rapporto con un architetto per cui aveva fatto gli stucchi del ristorante “Bastianelli al molo” di Fiumicino. Un giorno, siamo nel 1967, il tipo lo chiama e gli dice: “senti, ti va di andare a Tunisi a fare dei controsoffitti?” Ernesto parte per la prima volta in aereo con quattro mastri, e un manovale che mastica il francese.
Si tratta di lavorare all’Hotel Abu Navas (o qualcosa del genere) vicino a Tunisi. I manovali tunisini devono presto imparare l’italiano, lingua di chi sa fare il lavoro. Si mangia pesce e pastasciutta cucinata da un cuoco francese, “perché eravamo italiani”.
Il patto con il datore di lavoro è che se riuscivano a finire i 700 metri quadri di “camera a canne” (il modo romano di dire controsoffitto prima della rete metallica) c’erano 500 mila in più per il gruppo. Quelli di prima si erano impallati. Ernesto lavora fuori opera, ogni ora 4 metri di guscio. Accoppiato con l’utilizzo del gesso francese, “che è molto meglio del nostro perché è più duro”, il lavoro è fatto in tempi rapidi.
 
Il rapporto con la Tunisia sembra andare bene. Vengono anche tre allievi del luogo con una “borsa di studio” a cercare di imparare il mestiere in Italia con Ernesto. Restano sei mesi ma il rapporto non funziona anche se erano “buoni”. Credevano di imparare troppo presto, invece ci vogliono anni.
 
Poi si susseguono impegni vari, il riferimento a singole esperienze non sempre è facile: “se non so’ morti se so’ ritirati”. E’ un periodo di lavori in giro per l’Italia, da Napoli a Pescara, mai più di due settimane di seguito fuori casa.
All’inizio degli anni ’80 l’occasione di lavorare a Doha in Qatar, nella casa opulenta di qualche ricco emiro.
Mi viene da pensare che la storia di uno stuccatore del Testaccio è un poco la storia del nostro rapporto con il mondo arabo: prima la speranza di cooperazione con i nostri vicini a Nord del Mediterraneo come la Tunisia e l’Algeria; poi il fallimento della cooperazione nel Mediterraneo e gli affari con gli sceicchi della penisola araba.
 
Fosse per lui la storia di stuccatore durerebbe ancora oggi. “Io lavorerei ancora, tanto è l’occhio che fa la maggior parte del lavoro”. Ma piano piano, quando invecchiano anche i datori di lavoro, si finisce fuori dal giro. I pochi versamenti di Ernesto, che per la maggior parte ha lavorato in nero, gli hanno garantito una pensione minima di 520 euro. Ma tanto si era fatto i suoi calcoli.

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