Nel 1971 la decisione di Nixon di sganciare il dollaro dall’oro sancisce la fine del sistema di Bretton Woods e apre la strada a una maggiore volatilità finanziaria.
La fine del legame con l’oro provocò instabilità e crisi economiche come la crisi petrolifera del 1973. Può essere indicato come l’inizio di una fase neoliberista, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalla centralità dei mercati finanziari e dalla limitazione del ruolo dello Stato.
Negli anni ’80, con l’elezione di Thatcher e Reagan, l’Occidente adottò un modello di crescita basato su privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e mercato libero. La sinistra, che aveva conquistato posizioni rilevanti nella lunga fase di crescita industriale seguita alla seconda guerra mondiale, ne uscì ridimensionata e sconfitta e, dopo il crollo del Muro e lo sgretolamento del blocco sovietico, perse identità adottando posizioni moderate come la “terza via” di Blair, limitandosi a mitigare le disuguaglianze (riforme) senza proporre un vero progetto alternativo.
Con le deregolamentazioni, specialmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la finanza assunse un ruolo dominante nell’economia. Le banche e le istituzioni finanziarie potettero espandere le proprie attività e sviluppare nuovi prodotti (come i derivati), influenzando profondamente le economie nazionali e internazionali.
Con la globalizzazione molte industrie occidentali spostarono la produzione in paesi con costi del lavoro inferiori e controlli ridotti, specialmente in Asia, per aumentare i profitti e ridurre i costi. Questo causò un declino dell’occupazione manifatturiera nei paesi avanzati, portando a una “deindustrializzazione” delle economie occidentali. La crescita si spostò dal settore industriale al settore dei servizi, inclusi i servizi finanziari, la tecnologia e il commercio. La fine della centralità dell’industria tradizionale, a partire dagli anni ’70, coincide con l’ascesa delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
Questa fase creò economie occidentali fortemente finanziarizzate, con crescenti disuguaglianze e una progressiva perdita di controllo sulla produzione industriale tradizionale, spostata in altre regioni del mondo. Negli anni la forbice tra ricchi e poveri, tra vertici dell’industria e lavoratori continuò ad allargarsi [1].
Crisi del neoliberismo e ascesa del populismo
Nel 2008 la crisi finanziaria globale, espressione diretta della deregolamentazione reganiana [2], evidenziò i limiti del modello neoliberista, aumentando la disuguaglianze e il malcontento popolare. Questo momento rappresenta forse la fine dell’illusione della “Fine della Storia”, processo teorizzato dal ricercatore statunitense Francis Fukuyama che vedeva nel crollo del blocco comunista dei primi anni ‘90 la scintilla necessaria alla diffusione del capitalismo democratico liberale nel mondo.
La vittoria di Trump nel 2016 rappresentò una rottura con il neoliberismo imperante nei decenni precedenti. La sua politica di nazionalismo economico segna un ritorno alla protezione degli interessi nazionali e di critica delle istituzioni globali.
Veniamo all’oggi. L’urgenza ambientale e la competizione per le risorse si sommano ai limiti del capitalismo neoliberale, che non può rispondere in modo efficace alla crisi ecologica.
Emergono teorie di un’autorità centralizzata e tecnologica per affrontare l’emergenza ambientale. Uno scenario che rischia di limitare la democrazia, con misure imposte “dall’alto” utilizzate per contenere l’impatto ambientale e controllare la popolazione. È la direzione che conduce verso un possibile “eco-autoritarismo”.
Seconda presidenza Trump con Elon Musk: verso una nuova fase autoritaria e tecnologica.
La rielezione di Trump, questa volta con Musk come figura chiave, potrebbe inaugurare una fase autoritaria e tecnologica. Musk rappresenta la visione di un futuro guidato da innovazione privata e da tecnologie avanzate, mentre Trump incarna una leadership autoritaria e nazionalista.
L’influenza di Musk segnala un’integrazione tra governo e tecnologia, un “autoritarismo tecnologico” che punta a ridurre il ruolo delle istituzioni democratiche - e "mandare a casa i giudici scomodi" per restare alla cronaca [3]. Le decisioni sarebbero centralizzate e giustificate dall’emergenza climatica e dalla sicurezza, con una militarizzazione della gestione delle risorse e delle migrazioni.
L’influenza del duo statunitense spinge nella direzione di una ulteriore divisione radicale tra le élite tecnologiche e la popolazione generale, accentuando le disuguaglianze e la povertà di molti.
La centralizzazione del potere permetterebbe una maggiore sorveglianza e repressione dei dissidenti, giustificata dalla necessità di fronteggiare le emergenze globali e garantire la stabilità.
In conclusione, la fase neoliberista potrebbe essere sostituita da un modello autoritario e tecnocratico, caratterizzato dal controllo centralizzato e dalla riduzione delle libertà democratiche. In questo contesto, la crisi climatica e le tensioni geopolitiche servirebbero come giustificazione per un accentramento del potere e una possibile militarizzazione della gestione delle risorse e del dissenso, con Trump e Musk come alfieri di questa nuova fase e parte di una internazionale di destra dall’Argentina all’Europa. Insomma, la soluzione alla crisi climatica sarebbe il benessere riservato a pochi, l’inferno per tutti gli altri. [4]
Come ci si può aspettare che si caratterizzerà l’economia nei prossimi anni?
Se l’ascesa di una leadership come quella del duo Trump/Musk segnasse l’inizio di una nuova fase economica in risposta alla crisi climatica, ci si potrebbe aspettare uno scenario con tratti distintivi molto particolari, caratterizzato da centralizzazione, tecnocrazia, e una nuova gerarchia delle risorse. Cioè esattamente l’opposto di quel che occorrerebbe per affrontare la crisi climatica come crisi globale.
Il controllo economico e politico potrebbe essere centralizzato nelle mani di un’élite tecnologica e politica, che governerebbe attraverso algoritmi e sistemi di gestione basati sui dati. Musk incarna questa visione tecnologica, dove la digitalizzazione e l’automazione diventano strumenti di controllo. Le decisioni potrebbero essere prese per rispondere velocemente alle crisi (climatica, energetica) senza passare per processi democratici tradizionali.
Di fronte a risorse naturali sempre più scarse, potrebbe svilupparsi un’economia basata sulla gestione e il controllo delle risorse vitali (energia, acqua, terre rare). La crisi climatica giustificherebbe misure drastiche e limitazioni nei consumi, magari con sistemi di quote o con una "dieta energetica" imposta, in cui i governi e le aziende decidono l’allocazione delle risorse in modo gerarchico.
Invece di un’economia verde partecipativa, potremmo vedere un modello in cui la tecnologia “green” è centralizzata e utilizzata per giustificare interventi autoritari. Elon Musk, ad esempio, è già coinvolto nella produzione di batterie, auto elettriche e pannelli solari; in questo nuovo contesto, si potrebbe assistere a un monopolio su tecnologie e risorse energetiche da parte di poche aziende private, giustificato dall’urgenza ambientale.
La gestione della crisi climatica potrebbe includere un controllo più rigido sulla popolazione, con l’uso estensivo della sorveglianza per assicurare che le politiche ambientali vengano rispettate. Strumenti di monitoraggio digitale potrebbero essere impiegati per limitare il consumo individuale, monitorare spostamenti e stili di vita, e reprimere forme di dissenso. Questa sorveglianza potrebbe essere facilitata dall’infrastruttura tecnologica sviluppata dalle grandi aziende del settore.
In uno scenario dove le risorse sono scarse, lo Stato potrebbe cedere il controllo delle infrastrutture essenziali (come l’energia, l’acqua e i trasporti) a grandi aziende private. La gestione di questi beni comuni diventerebbe un’opportunità per il settore privato, con aziende come quelle di Musk che potrebbero avere un ruolo centrale nel definire le priorità di consumo e l’accesso alle risorse.
I diritti economici e sociali garantiti dalle democrazie moderne (come assistenza sanitaria, istruzione, welfare) potrebbero subire cambiamenti radicali. Potremmo assistere a una riduzione delle garanzie sociali per la maggioranza della popolazione, mentre i servizi di alta qualità rimarrebbero accessibili solo a una piccola élite. L’idea di welfare potrebbe essere sostituita con un sistema di accesso selettivo basato su meriti e su contributi al sistema, anziché su diritti universali.
La corsa allo spazio e alla colonizzazione di nuovi territori (come Marte) rappresenterebbe la versione “espansionistica” di questa nuova economia, di nuovo con Musk tra i protagonisti. Le aziende private potrebbero avere un ruolo primario nell’esplorazione spaziale, imponendo modelli economici autoritari e capitalisti in territori extra-terrestri. Insomma , le nuove frontiere economiche.
In sintesi, il nuovo modello economico che potrebbe emergere sotto una leadership come quella di Trump/Musk risponderebbe all’urgenza climatica e alle sfide globali con soluzioni centralizzate, tecnologiche e autoritarie, segnando una netta rottura rispetto alla democrazia liberale e alla regolamentazione del capitalismo del passato. Potremmo vedere un’economia dominata da poche aziende e attori tecnologici, con una società profondamente diseguale e una sorveglianza pervasiva giustificata da emergenze globali. [5]
In questo scenario l’Unione Europea rischierebbe di ritrovarsi in una posizione subordinata rispetto ai grandi attori economici e tecnologici globali, come gli Stati Uniti e la Cina, o persino rispetto a singole multinazionali. Ci sono diversi fattori che potrebbero portare l’UE a giocare un ruolo marginale:
Dipendenza tecnologica: L’Europa non dispone delle grandi aziende tecnologiche su scala di quelle statunitensi o cinesi, e questa carenza può limitarne l’influenza nella nuova economia digitale e autoritaria. Mentre gli Stati Uniti e la Cina investono enormemente in settori strategici come l’intelligenza artificiale, l’energia verde e lo spazio, l’Europa si trova spesso a rincorrere, mancando di piattaforme digitali competitive e di un’infrastruttura tecnologica di pari livello.
Divisioni interne: L’UE è un’unione di stati con interessi spesso divergenti, e fatica a trovare una voce unitaria su temi cruciali come la politica energetica, la gestione dei dati e la difesa. Questo rende difficile per l’Europa agire rapidamente di fronte a sfide globali, rendendola vulnerabile a pressioni esterne. Inoltre, le divisioni ideologiche tra stati orientati verso un’economia più sociale e quelli con posizioni liberiste minano la capacità dell’UE di fare fronte comune.
Politiche climatiche e dipendenza energetica: L’UE è una delle regioni che ha investito di più nella transizione ecologica, ma resta dipendente dalle importazioni energetiche, soprattutto di gas. In uno scenario di crisi climatica, questa dipendenza potrebbe portare l’Europa a fare concessioni sul piano economico e politico verso paesi produttori di energia o aziende tecnologiche capaci di fornire soluzioni “verdi” su larga scala.
Rigidità normativa: La regolamentazione europea, pur con vantaggi come la protezione dei dati e i diritti dei consumatori, può risultare un ostacolo in un contesto di competizione globale rapida e aggressiva. Mentre l’UE cerca di mantenere standard elevati, paesi come gli Stati Uniti e la Cina potrebbero accelerare sul fronte tecnologico e ambientale con un approccio più pratico, anche a scapito di alcune garanzie democratiche.
Sovranità limitata in ambito militare: Senza una forza militare paragonabile a quella statunitense o cinese, l’UE potrebbe trovarsi ad appoggiarsi alla NATO o a forze esterne per la propria sicurezza. Se le tensioni globali aumentassero, gli Stati Uniti o la Cina potrebbero assumere un ruolo di protettori dell’Europa in cambio di concessioni economiche o di allineamento strategico.
Perdita di influenza democratica globale: L’Europa è tradizionalmente un difensore della democrazia e dei diritti umani, ma in un contesto globale sempre più autoritario, potrebbe perdere influenza. Se il modello “eco-autoritarista” statunitense o quello cinese basato sul controllo statale si diffondessero, l’UE potrebbe trovarsi isolata nella sua difesa di valori democratici, limitando la sua capacità di influenzare l’ordine mondiale.
L’Europa tra resilienza e necessità di trasformazione
Di fronte a questi scenari, l’UE avrebbe bisogno di rafforzare la propria autonomia tecnologica e strategica per non restare indietro. Potrebbe:
Aumentare gli investimenti nella tecnologia e nelle infrastrutture “green” per non dipendere da multinazionali esterne.
Costruire una difesa comune per aumentare la propria autonomia in un mondo polarizzato.
Creare una politica energetica unitaria e sostenibile, riducendo la dipendenza da fornitori esterni e puntando su risorse proprie e rinnovabili.
Difendere il proprio modello democratico, proponendosi come un’alternativa più giusta e inclusiva rispetto agli autoritarismi emergenti.
Puntare a partnership con i paesi africani per affrontare emergenza climatica e crisi economica.
L’Unione europea si troverebbe a un bivio: continuare come osservatore marginale o affrontare una trasformazione per competere con le potenze autoritarie, tecnologiche e economiche globali.